Mobbing in call center

Nadia è una donna di 53 anni. Si presenta estroversa, solare, gioiosa. Crede nei valori della solidarietà, del sindacato. Una donna generosa che prima di pensare a se stessa si accerta che gli altri stiano bene. Però ad un certo punto si sente con le spalle al muro. Si sente il magone allo stomaco, l’ansia di andare a lavoro. Nadia è impiegata in un call center da anni. “All’inizio quando cominci a lavorare, -racconta Nadia- finalmente in una azienda cosiddetta sicura, ed entri in un mondo nuovo, dove sai che devi essere attento, preciso. Molte cose non le capisci. Soprattutto quando e quanto ti stanno “usando”, “schiavizzando”. Ma poi accumuli una tale esperienza e ti rendi conto che lavorare è un diritto, quelle catene che vorrebbero metterti non le vuoi.” Così attraverso il sindacato si informa, cerca di coinvolgere altri lavoratori e lavoratrici incomincia un percorso per migliorare le condizioni di lavoro. Lavora con quasi 80 persone, un ambiente insalubre con l’impianto di ricircolo dell’aria inadatto e dove ogni tipo di contatto con persone o cose è anticipato dalla così detta “scossa” per probabile radioattività.
D’estate manca l’aria, si lavora male. Si rivolge al sindacato Sdl intercategoriale. Vorrebbe fare qualcosa per se e per gli altri. Incomincia la lotta. Volantini, riunioni, affissioni… e Nadia inizia ad essere isolata, demansionata, origliata se parla con i colleghi. La trovi in fondo al lungo corridoio, quasi nascosta, senza colleghi con cui scambiarsi uno sguardo. Arrivano piogge di richiami. “Una volta mi sono alzata per andare in bagno, è arrivato un richiamo scritto in cui mi si diceva che mi ero allontanata dalla postazione senza un motivo. Con il sindacato siamo riusciti a dimostrare che non era vero. Un’altra volta, siamo riusciti a bloccare una sospensione di 3 giorni. È accaduto qualche mese fa. Ero a lavoro e mi sentivo male. Andai nella sala pausa pranzo, per tranquillizzarmi. Un mio collega, uno di quelli che rema contro i lavoratori per fare carriera, se ne è accorto e con un’aria strafottente voleva costringermi a misurare la pressione. Io sapevo che non era lui preposto al primo soccorso, inoltre sapevo che mangiando qualcosa mi sarei ripresa senz’altro. Infatti dopo poco potevo riprendere la mia postazione, dove però mi raggiunsero tre colleghi con la solita aria strafottente che volevano obbligarmi a misurare la pressione. Nasce una discussione dalla quale presa dall’ansia, dall’impotenza di potermi liberare della loro presenza, mi sentii ancora più male. Andai all’ospedale e la mia pressione massima aveva superato 200. una situazione che si protraeva da troppo tempo e il mio fisico non ha retto più. Fui ricoverata qualche giorno per accertamenti. E quando tornai a casa trovai una lettera di richiamo in merito all’accaduto e con sospensione da lavoro di giorni 3 per i toni accesi con cui si era svolta la discussione.” Ecco qui che ogni domenica le prende l’angoscia, il rifiuto di andare a lavoro perché sta male, vive sofferente lì dentro. “La mia professionalità viene utilizzata per compilare moduli che solitamente fanno i neoassunti. Non so fino a quando potrò andare avanti, perché il malessere lavorativo si ripercuote sulla vita personale diventa difficile gestire la propria vita. non riesco a scrollarmeli di dosso neanche quando al lavoro non ci sono. Intolleranze alimentari, umore malinconico, ecc.
Sarebbe facile andare via, ma se ho dei diritti, voglio averli.”

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