COSA NOSTRA ALL’ATTACCO: “QUESTO E’ IL MOMENTO DI UCCIDERE ULTIMO”, E REPUBBLICA DIFFONDE LA CONDANNA A MORTE DEL COLONNELLO DE CAPRIO

L'avvocato Pietro Milio mostra dopo 13 anni dalla perquisizione, la cassaforte MAI SMURATA dal covo di Riina

Parte dalle pagine di Repubblica l’ultima condanna a morte per il “capitano Ultimo”, con cui evidentemente Cosa Nostra, a distanza di molti anni dalle catture di latitanti del vertice mafioso come Ciccio Madonia e Salvatore Riina, ritiene di non avere ancora chiuso i conti.

Raffaella Fanelli (la giornalista che ha fatto l’intervista a Ultimo che abbiamo diffuso nei canali di twitter e mandata in onda nella TV svizzera) è riuscita a strappare un’intervista al discusso pentito Gioacchino La Barbera. Intervista in realtà pubblicata anacronisticamente perchè effettuata in periodo antecedente all’intervista a De Caprio. Un pentito, La Barbera, che alcuni anni fa si rese protagonista della cronaca giudiziaria, nell’ottobre del 1999, per aver subito una condanna a 19 anni di carcere per gravi reati commessi, nel contesto di una faida mafiosa, mentre era già pentito e sotto la protezione dello Stato. Insomma, un pentito che in passato non ha dato l’aria di essere poi così pentito.

Nell’intervista il La Barbera dopo alcune affermazioni iniziali sulla strage di Capaci che sono sostanzialmente la fotocopia di sue dichiarazioni pubblicate nel 2002 da Bianconi sul corsera in un articolo dal titolo “«Così ho dato il segnale per uccidere Falcone», dopo un’insinuazione sulla DIA come coinvolta nel “suicidio” in carcere del mafioso Gioè non supportata da alcun dato preciso o riscontro (il classico schema: “se parlo, inguaio i miei amici della DIA, così non parla, ma intanto sputtana la DIA, mentre noi I NOMI DEI SUOI AMICI LI VOGLIAMO SAPERE) conclude con due gravissime dichiarazioni, che sono, pur stando al fondo, il vero”centro gravitazionale” di quest’operazione mediatica, e che a noi altro non paiono che “pizzini” rivolti all’indirizzo del capitano Ultimo.

Leggiamole per esteso.

Tratto dall’intervista di Raffaela Fanelli:

Si parla sempre di liste di nomi, di archivi spariti dalla villa di Totò RiinaMa esistono questi documenti? Perché non sono mai state trovate carte importanti nei covi di Nitto Santapaola o di altri capi mandamento? Solo Riina aveva archivi?

LA BARBERARiina non era un capo. Era il capo di Cosa Nostra… Dopo il suo arresto accompagnai, insieme a Nino Gioè, i figli e la moglie di Riina fino alla stazione, da lì presero un taxi per Corleone. Poi seguii la pulizia e l’estrazione della cassaforte dalla villa di via Bernini e portai in un parcheggio la golf bianca intestata a un giardiniere della provincia di Trapani, non ricordo se Marsala o Mazara. Un’auto che ritirò Matteo Messina Denaro, con tutto quello che era stato trovato nella cassaforte. L’auto non era di valore quindi posso pensare che fossero più importanti i documenti”.

Analizziamo: che La Barbera abbia accompagnato, in qualità di persona all’epoca libera e incensurata, la famiglia di Riina, che non aveva alcun impedimento a muoversi liberamente, alla stazione ferroviaria dopo l’arresto del boss, è notissimo, è in atti, e quindi non fa assolutamente notizia. La ciccia viene dopo, quando il “testimone” afferma di avere seguitol’estrazione” della cassaforte della villa di Riina e di avere portato il suo contenuto a Messina Denaro utilizzando una golf bianca (forse una reminescenza di un’altra famosa utilitaria bianca?) che lui già allude essere identificabile. Noi siamo pure pronti a scommettere che, con una ricerca di polizia, tale vettura potrà effettivamente essere identificata. Tuttavia l’esistenza di questa autovettura, non significa di fatto che essa sia effettivamente servita a trasportare archivi di sorta. Ed infatti non può esserlo, poiché è facilmente dimostrabile che, sul resto della dichiarazione, il La Barbera mente.

Mente per le seguenti ragioni:

  1. La cassaforte non è mai stata “estratta” dai muri della villa di Riina. Il verbale di perquisizione del 3 febbraio 1993 contiene foto in allegato che dimostrano che la cassaforte era ben ancorata alla sua parete dello studiolo di Riina, il giorno della perquisizione, e che questa era regolarmente chiusa a chiave e non forzata.
  2. Giovanni Brusca, pentito considerato attendibile, ha testimoniato al processo Mori-Ultimo sulle vicende del dopo-arresto di Riina, di aver coordinato le operazioni di pulizia del covo, ed in quanto coordinatore ha dichiarato che nessun documento è stato asportato dalla villa da quando ci sono entrati i mafiosi dopo l’abbandono da parte della famiglia, poiché di documenti non ce n’erano, in quanto se ce ne fossero stati questi sarebbero stati distrutti dalla moglie immediatamente alla notizia dell’arresto del boss, in quanto così’ era disposto dal marito.

Di questa circostanza dà atto la sentenza definitiva del 2006:

In proposito, Giovanni Brusca ha detto di ritenere che [i documenti] furono bruciati dalla Bagarella, perché, se c’era qualcosa di importante, la moglie sapeva che andava eliminata, come imponevano le regole dell’organizzazione. (Sentenza “Mori-Ultimo” – 2006)

E lo stesso Brusca afferma che avendo sempre dato per scontato che ella l’avesse fatto (aveva l’ordine“di mangiarseli, di bruciarseli, facesse quel che voleva, doveva distruggerli”) , egli non affrontò mai neppure il problema dei documenti di Riina coi complici rimasti a pulire la casa. Ed anzi, il pentito precisa che essi fecero ben attenzione a non uscire mai con oggetti vistosi dall’abitazione (figuriamoci una cassaforte), spiegando bene che ciò avveniva:

TESTE BRUSCA: per non uscire, precisamente, per non uscire con questi involucri dalla casa, hanno preferito bruciarli, quindi gli è spiaciuto al La Barbera che ha bruciato la biancheria, il corredo della moglie, più tutta una serie di pellicce e quant’altro, pur di non uscire da li dentro con…ma perchè si spaventava che potevano essere controllati, o quant’altro, che qualcuno gli dice: Da dove vengono queste cose, perché li stai togliendo?quindi hanno preferito distruggerli nel sito.

AVV. PIETRO MILIO:Quindi lei è sicuro di questo fatto,che non è uscito nulla dalla casa di Riina?

TESTE BRUSCA:Per quello che mi ha detto Angelo la Barbera, è uscita solo l’argenteria e qualche quadro

Lo stesso Brusca nella stessa testimonianza ha spiegato che il boss nei due covi da lui utilizzati, con la famiglia, precedentemente a quello di Via Bernini, non aveva conservato in casa i suoi documenti ma anzi si era fatto fabbricare, in un caso ricorrendo pure a fabbri esperti, dei nascondigli segreti come un fusto da 200 litri sigillato e occultato nelle vicinanze di un fiume, o bombole del gas appositamente truccate con delle speciali intercapedini occulte, da poter custodire distanti dall’abitazione. Non v’è pertanto una ragione logica perché il boss in Via Bernini, dove pure viveva la famiglia, avesse deciso di cambiare strategia, tenendo nella cassaforte di casa documenti compromettenti, anziché occultarli altrove come si era preoccupato di fare sino ad allora.

Proprio il La Barbera medesimo, lui in persona, nello stesso processo, aveva reso dichiarazioni del tutto difformi, in argomento, affermando di non avere “seguito l’estrazione della cassaforte”, ma di avere solo sentito parlare di ciò da Sansone senza conoscere alcun altro dettaglio, specialmente in riferimento alla sorte del contenuto:

INGROIA: Quindi, disse che … ques.. di u… dell’esistenza di una cassaforte, e che questa cassaforte era stata smurata ed era stata svuotata.

LA BARBERA: Si, no…svuota..

INGROIA: Smurata o svuotata?

LA BARBERA: Intanto smurata. E poi sicuramente svuotata … NON SO COSA … COSA CI POTEVA ESSERE, ‘nsomma.

PRESIDENTE: Scusi, le fu detto che era stata aperta e svuotata, la cassaforte?

LA BARBERA: Portata via. SI PARLAVA DI “portare via” e murare il posto dove era messa la cassaforte. … hanno avuto il tempo pure di fare proprio la muratura.

INGROIA: Perché non bisognava, secondo… quello che le … quello de ….venne detto che non bisognava lasciare tracce neanche della presenza della cassaforte, questo quello che lei sente dire?

LA BARBERA: Si, non so perché. a volte C’ERANO COSE CHE MAGARI … IO NON MI SPIEGAVO, (e ti credo che non se le spiegava, soprattutto perché la cassaforte non si era mai mossa di lì –ndr) PERÒ DOVEVO RAPPORTARE LE COSE CHE MI DICEVA IL SANSONE A BAGARELLA.

E ancora:

LA BARBERA: … Il primo giorno lui (Sansone – ndr) era soddisfatto perché diceva : siamo riusciti a togliere la cassaforte, si intendeva la cassaforte, tutto… Si parlava di questa cassaforte…

Avv. PIETRO MILIO: Lei ha parlato di cose compromettenti da tirare via. Sa quali erano queste cose compromettenti?

LA BARBERA: NO NON L’HO MAI SAPUTO, ho solo visto Sansone soddisfatto per aver tirato via la cassaforte e le cose più importanti.

Il risultato di queste testimonianze, è sintetizzato nella sentenza definitiva, in netto contrasto con le attuali dichiarazioni del La Barbera:

NESSUNO dei collaboratori di giustizia (La Barbera compreso – ndr) ha, però, dichiarato di aver mai visto questi documenti, dopo l’arresto del Riina e negli anni a seguire, o di avere appreso quale sorte abbiano avuto.” (Sentenza “Ultimo-Mori” – 2006)

Matteo Messina Denaro nel gennaio 93 aveva 29 anni, e non rivestiva assolutamente il ruolo di persona idonea ad ereditare il presunto archivio di Riina, poiché prima di lui venivano latitanti ben più anziani, ben più importanti e ben più vicini al boss, anche per parentela, come Bagarella, Brusca, Santapaola, Provenzano, Graviano.

Non se ne può che concludere che il “pentito”, ha mentito alla giornalista di Repubblica. Perché? Forse le ragioni si fanno più chiare analizzando la seconda dichiarazione:

Ha conosciuto il Capitano Ultimo?

“Mai visto. So che Bagarella ha messo una taglia sulla sua testa dopo l’arresto del cognato. Mi impressionò la sua rabbia e la determinazione a vendicarsi. Era impazzito: dava soldi a tutti i carabinieri e poliziotti che ci portavano notizie. Lo voleva, e lo vuole morto. Sarà pure in 41-bis ma è un furbo: lui sa che è questo il momento giusto per farlo fuori.

Ecco, impossibile non vedere in queste poche righe un chiaro messaggio mafioso. Mafioso laddove avverte Ultimo, di non potere sentirsi al sicuro per la capacità dell’organizzazione criminale di corrompere “carabinieri e poliziotti” che gli portano notizie. Mafioso, per la non motivata attualizzazione della condanna a morte emanata oltre vent’anni fa dal cognato di totò Riina: “questo il momento giusto per farlo fuori”. E perché questo sarebbe il momento giusto? Che cosa renderebbe questo preciso momento, più “giusto” di altri momenti precedenti, per eliminare il comandante De Caprio?

In buona sostanza, noi ci troviamo di fronte a due diversi tipi di minaccia: prima l’asserzione relativa ad una presunta operazione del 1993 ma nuova di zecca per le nostre cronache: una consegna dell’archivio di Riina a Messina Denaro. Il fatto che provenga tale asserzione, dal La Barbera, per il quale pure rappresenta un’invenzione del tutto nuova, conferisce al tutto il fetore del ricatto: occhio che ti tiro fuori questa caramella, in aggiunta a tutto il fango già gettato con la leggenda della cassaforte smurata.

La seconda minaccia, ben più grave, consiste in una vera e propria minaccia di morte che si concretizza nell’immotivata (almeno apparentemente) attualizzazione della taglia posta anni fa sulla testa di Ultimo da Leoluca Bagarella: occhio, che “questo il momento giusto per farlo fuori”.

Impossibile poi pensare che questa iniziativa evidentemente pianificata sorga oggi all’improvviso per mere ragioni di vendetta per la cattura del capo dei capi, a distanza di vent’anni.

E’ evidente che il ricatto, espresso in questa forma soltanto oggi, sia da collegarsi con l’attività ATTUALE del colonnello Ultimo. Ed allora è impossibile non pensare alle vicende degli ultimi giorni, che hanno visto il capitano Ultimo esautorato per ordini superiori dalle inchieste che stava conducendo, e i suoi conseguenti sforzi per ottenere almeno la possibilità di portarle a conclusione. Non si può non rilevare la coincidenza delle due circostanze, ravvisando un tentativo di coinvolgere Ultimo a starsene buono, lasciando perdere le sue inchieste e magari qualcuna in particolare. 

Noi quindi ci auguriamo che questa vicenda non venga trascurata, intravedendo aspetti che debbono obbligatoriamente stimolare un’immediata azione giudiziaria.

Il mafioso “pentito”, se è vero che è pentito, Gioacchino La Barbera deve immediatamente riferire al magistrato competente:

    1. La ragione per cui fornisce oggi una versione sul destino dell’archivio di Riina così difforme da quella resa in giudizio, rendendosi così falso testimone o con la prima versione, o con quella attuale, o con entrambe. Nello specifico, se è vero che egli avrebbe “seguito” questa leggendaria asportazione della cassaforte di Riina, il La Barbera deve indicare una volta per tutte la parete della villa (che oggi è in uso all’arma dei carabinieri) da dove l’oggetto sarebbe stato asportato, in maniera che una semplice perizia sul muro consenta di porre definitivamente la parola fine su questa melmosa e grottesca sequenza di fiabesche dichiarazioni relative alla cassaforte.
    2. L’identità degli agenti della DIA che egli ha dichiarato di voler coprire in relazione alla morte del Gioè, e le esatte circostanze inerenti
    3. L’identità dei “poliziotti e carabinieri” corrotti da Cosa Nostra che gli portavano notizie” (usa la prima persona plurale, qualificandosi come uno dei destinatari delle informazioni, quindi sul punto non può essere reticente, in quanto pentito)
    4. La motivazione precisa per cui egli ha ritenuto di informare i media, proprio in questo momento preciso, dell’attualizzazione (“questo è il momento giusto per farlo fuori”) della condanna a morte del capitano Ultimo

E l’auspicio è che costui, questa volta, venga torchiato a dovere da una magistratura che in passato ha prestato il fianco ai pentiti perchè a volte fare indagini è più faticoso che ascoltare un criminale. 

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