I sogni svaniti in un minuto

Ogni anno migliaia di lavoratori e lavoratrici rimangono vittime della loro fonte di reddito. I motivi sono sempre gli stessi, sfruttamento della manovalanza a nero e degli extracomunitari, violazione delle norme sulla sicurezza e sulla salute. Oggi, i mezzi di informazione, i sindacati, le associazioni e la politica sono attente e sensibili quando accade una disgrazia nei luoghi di lavoro. Ma non è stato sempre così. C’è stato in passato un muro di omertà che, purtroppo, in alcune realtà è ancora difficile da scardinare. Portare avanti un’inchiesta sugli infortuni e cercare testimoni pronti a denunciare a testa alta l’azienda per la quale lavoravano non è facile.

Salvatorina Berardi ha avuto un infortunio dov’era impiegata 27 anni fa. Potrebbe sembrare una storia vecchia, ma chi la vive sulla propria pelle e porta dentro le immagini che l’hanno resa invalida, che le hanno procurato umiliazioni e dolore, è sempre attuale. Salvatorina è nata a Teano, in provincia di Caserta, e viveva qui con la sua famiglia: suo padre, sua madre e sua sorella. Una famiglia di onesti lavoratori. A 16 anni si è adolescenti, si hanno progetti per il futuro, tanti sogni, e anche Salvatorina aveva il suo: diventare parrucchiera estetista. Non voleva pesare economicamente sulla famiglia, perciò finita la scuola decise di recarsi all’ufficio di collocamento per trovare un lavoro, pensava:
“Sono sicura che mettendo da parte qualche soldo riuscirò a convincere i miei genitori ad aiutarmi per avviare un’attività commerciale tutta mia.” Trovò un impiego presso una cooperativa operante nel settore conserviero. Un lavoro di otto ore, e si rendeva disponibile anche per gli straordinari, ma era pesantissimo per una ragazza che fino al giorno prima era stata sui banchi di scuola, racconta:
“Io rigavo dritto, non davo peso neanche alle attenzioni non desiderate dei colleghi, per me era necessario assicurarmi la paga per raggiungere il mio obiettivo.”

Il 16 agosto Salvatorina incominciò il suo turno alle 14.00. Scaricò a mano le cassette della frutta dai camion e le sistema nella cella frigorifero. Dopo aver sistemato chili e chili di frutta per una ragazza la fatica si fa sentire. Successivamente verso le 16.00 eseguì l’ordine impartito dal suo capomeccanico, pulire il nastro trasportatore. Salvatorina si recò al nastro: “Mentre ero intenta nella pulizia del macchinario, sentii la mia mano attratta dall’ingranaggio, cercai di tirare con tutta la forza che avevo il mio braccio e quando lo tolsi… in pochi secondi, la mia gioia di vivere, la mia gioventù, le mie ambizioni venivano spazzate via. un dolore al quale ero impreparata e soprattutto non potevo immaginare le conseguenze.”

Per colpa di un macchinario senza nessuna sicurezza, la vita di Salvatorina stava per cambiare, doveva affrontare il mondo senza la mano sinistra, la mano con cui scriveva. “Non sapevo da dove cominciare, e a chi rivolgermi. L’azienda in modo informale mi fece capire che non dovevo denunciare il fatto ed era inutile tornare a lavoro, le cose non sarebbero state come prima. Dai sindacati non ho ricevuto l’aiuto che speravo. Dovevo combattere da sola”. La disavventura non terminava: vene a sapere che l’assunzione non fu registrata due mesi prima come credeva: “All’ufficio di collocamento venivano fatte assunzioni senza nominativo, i dati anagrafici venivano inseriti solo se avveniva un infortunio. Con l’esperienza maturata oggi, mi chiedo com’era possibile che gli impiegati accettassero assunzioni in bianco? Non avrebbero dovuto tutelare e difendere i diritti dei lavoratori?”

Intanto nel paese i ragazzi se non la ignoravano, la prendevano in giro, i continui sguardi se all’inizio la imbarazzavano successivamente le davano fastidio. Quando cercava lavoro la risposta che le veniva data era sempre la stessa: “Mi dicevano in tono pietoso ed allo stesso tempo il più delicato possibile, per non offendermi, che senza una mano era difficile trovarmi un impiego. Loro non avevano bisogno di me, mentre io avevo un disperato bisogno di loro, di sentirmi “normale””.

A 19 anni ricevette le attenzioni di un ragazzo, era felice. Dopo essere stati fidanzati per un po’ si sposarono, aspettavano anche un bambino. “Mio marito non aveva intenzione di lavorare, mi aveva sposata perché percepivo una pensione di invalidità, dunque a lui bastava quella. Mentre io mi arrangiavo come potevo. Soprattutto come bracciante nelle serre. Non gli importava che soffrivo nelle mie condizioni lavorando per ore china a temperature altissime. Dopo sette anni di matrimonio lasciò me e mia figlia da sole.” Intanto, Salvatorina aveva subito numerosi interventi tutti a sue spese, il cocktail di farmaci a cui era sottoposta le aveva provocato una disfunzione ormonale e la fece aumentare di peso. Con questa situazione precaria si rivolse agli amministratori locali, innanzitutto pensava alla bambina da crescere.

“L’aiuto c’è stato. Mi trovarono un impiego prima come spazzina, poi presso il cimitero del paese ed infine come saldatrice. Da questo elenco di impieghi si può capire che nelle mie condizioni fisiche non ne potevo svolgere nessuno.” Insomma una vera beffa. Fortunatamente oggi Salvatorina ha raggiunto un certo equilibrio, ha una persona accanto che le vuole bene ed ha avuto un’altra figlia. Lavora come impiegata ha vinto un concorso per disabili. Prima di diventare suo a tutti gli effetti il posto che aveva “sudato”, “fu venduto al miglior offerente”, tramite un avvocato è riuscita a riprendere ciò che era suo.

Finora ha speso più di 25.000 euro in assistenze legali, ha vinto in tutti i gradi di giudizio, ma ancora non riceve un centesimo per il suo danno morale e fisico subito quando era un’adolescente. “Ho avuto una vita di stenti e sacrifici, 27 interventi chirurgici, ho perso parte di sensibilità all’altra mano, quello che avrei voluto è un po’ più di attenzione dalla politica, dai mezzi di informazione e dai sindacati. Vivere nella mia condizione non è facile, dopo quasi 30 anni sono ancora emarginata, discriminata. Noi invalidi abbiamo bisogno di aiuto, nessuno si chiede come viviamo, com’è il nostro rapporto con la famiglia, con la società, le nostre condizioni psicologiche ed economiche. Io ancora non riesco ad accettare la mia situazione. Ho 15 anni di contributi maturati, non posso andare in pensione, quando ci andrò in che condizioni sarò? Spesso mi chiedo ancora perché mi è capitato tutto questo?”

Commenti Facebook