Può un uomo partire da casa per andare a lavorare, e non farvi ritorno la sera?

Nel 2000 ad Ortezzano in provincia di Ascoli Piceno, si insediò L’Asoplast srl: un’azienda florida e moderna dell’indotto Merloni, si occupa di stampaggio di materiale in propilene, pvc, assemblaggio e tampografia. Una risorsa per il territorio. Vennero assunti cento operai e nel 2003 Andrea Gagliardoni riuscì ad essere uno di loro. Aveva già avuto esperienze lavorative, a 19 anni aveva scelto di rimanere accanto a sua madre e sua sorella per contribuire al mantenimento della famiglia.

La madre Graziella racconta che Andrea lavorava già da un anno e mezzo, e voleva cambiare occupazione perché era troppo pesante per lui: era nato con un’imperfezione alla schiena. Attraverso un’agenzia interinale fu chiamato presso L’Asoplast srl che dista ottanta chilometri. Con i soldi che guadagnava era riuscito a comprare a rate una macchina, così pesava meno anche il viaggio. Era contento di questo lavoro perché si articolava in tre turni, quindi aveva molto tempo a disposizione per coltivare la sua passione per la musica. Il 19 giugno Andrea aveva fatto il turno di pomeriggio: dalle 13.00 alle 21.00. Rientrò verso le 22.00, si mise a tavola, cenò e poi come al solito insieme alla madre andarono nella sua camera a fumare una sigaretta…

Graziella afferma: “Fra noi c’era un rapporto speciale, andava oltre il rapporto madre/figlio”. Poi vanno a dormire, Andrea l’indomani si sarebbe dovuto alzare presto, aveva fatto un cambio di turno perché aveva preso un impegno nel pomeriggio seguente, invece di prendersi un giorno di ferie.

“Mio figlio era un ragazzo responsabile e dedito al lavoro. Tutti sappiamo che un operaio non può tornare a lavorare se non sono trascorse 11 ore fra un turno e l’altro, ma il caporeparto, a mio avviso con molta leggerezza, gli concesse il cambio senza far firmare nulla.”

La mattina del 20 giugno Andrea si alzò alle 03.45 per essere sul posto di lavoro alle 05.00. Timbrò il cartellino, il saluto con i colleghi e poi incominciò il suo turno. Dopo poco più di un’ora dal suo arrivo, alle 06.10 la macchina tampografica cominciò a dare problemi, come più volte era successo, allora Andrea cercò di risolvere il problema come facevano anche gli altri operai. Mise la macchina in stand-by, usando il pannello dei comandi che si trovava lontano dal piano di lavoro e doveva essere azionato con entrambe le mani. Mentre controllava, la pressa ripartì da sola, lasciando il tempo di lanciare un urlo lancinante. La testa venne colpita da due tamponi che gli spezzarono l’osso del collo in un lasso di tempo pari a pochi secondi. Ecco, così lo trovarono i compagni di lavoro: in una pozza di sangue e rimase disteso in quel reparto per ore. È inconcepibile perdere un figlio in funzione del signor profitto. Tutto ciò è accaduto perché quella macchina assassina era priva di mezzi di sicurezza, cioè, in realtà doveva avere tre leve a garanzia, ma in base alle perizie, ce n’era solo una, e quell’unica è stata tolta per velocizzare la produzione.

Gli interessi economici, anzi Graziella con rabbia e dolore afferma “Credo che sia una vera e propria mafia economica, hanno messo a repentaglio la vita di cento operai, fra i quali padri, madri, mariti, mogli, figli e figlie. Per un puro interesse di mercato.. vale molto di più la produzione che una vita umana… Un operaio viene considerato nient’altro che un numero, una matricola, facilmente sostituibile. E’ più facile cambiare un operaio che un pezzo difettoso ad una macchina? Quanto sarebbe costato fare manutenzione? Quanto sarebbe costato accomodare la macchina tampografica”?

Per la morte di Andrea sono stati indagati per omicidio colposo l’amministratore delegato della ditta ed il progettista della macchina, ma anche qui la beffa… perché per omicidio colposo in questi casi la pena massima è di 5 anni, se poi si patteggia c’è la riduzione della pena… quindi questi due signori continueranno la vita di sempre: con il loro lavoro ed i loro affetti. Mentre dall’altra parte c’è una famiglia distrutta. A volte, presa da un’immensa rabbia, confida Graziella “Penso che entrambi dovrebbero provare quello che io sto provando da quel giorno: un dolore che mi porterò dentro per tutta la vita. Non so se questi pensieri siano giusti o meno, ma di una cosa sono certa, quella di Andrea era una morte preannunciata, che doveva e poteva essere evitata. In quella azienda ha lavorato per due anni e mezzo, ma nessuno gli ha fatto capire la pericolosità di quella macchina tampografica, non gli è stato mai detto di partecipare a corsi di formazione, tutto veniva affidato al caso, cioè l’operaio con più esperienza insegnava ai nuovi arrivati. Com’è possibile che un’azienda di quelle dimensioni e di quella importanza non si occupasse della specializzazione dei propri dipendenti? Io avevo affidato mio figlio a quella fabbrica, pensando che continuasse a proteggerlo come facevo io, come madre, perché era ancora un ragazzo.” “È trascorso più di un anno da quando il mio angelo se n’è andato. Nessun aiuto da parte di nessuno, né dai proprietari della fabbrica che non hanno fatto un giorno di chiusura, neanche il giorno dell’incidente, io li definisco uomini senza cuore e cervello, né da parte delle istituzioni. Sono stata ricevuta: dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dal Presidente del Senato Fausto Bertinotti, dal Segretario della Cgil Guglielmo Epifani, ma cos’è cambiato? Ancora nulla, si continua a morire di lavoro”.

Una famiglia abbandonata a se stessa e neppure un risarcimento, all’infuori di 1.600 euro per le spese funerarie. Il 20 giugno del 2007 c’è stata una manifestazione “per non dimenticare Andrea” davanti l’azienda. I sindacati avevano indetto una giornata di sciopero. Ma non ha aderito nessuno, così la stessa Asoplast ha chiuso per mezza giornata la fabbrica. Nonostante ciò, erano presenti solo una decina, dei suoi colleghi. Graziella non si arrende, non può arrendersi una madre, deve continuare con le proprie forze a combattere un sistema che le ha portato via suo figlio: “Io vorrei dire a tutti gli operai di quella fabbrica, e non solo, che loro sono in pericolo, consapevolmente in pericolo, ma silenziosi e coscienti. Lì non c’è neanche una cassetta del pronto soccorso. Quella mattina è capitato a mio figlio, ma poteva essere qualcun altro al suo posto” “Oggi c’è un’associazione proAndrea, per non dimenticare mio figlio vittima del lavoro e per sensibilizzare l’opinione pubblica: perché può qualunque uomo partire da casa per andare a lavorare, e non farvi ritorno la sera?”

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