Mobbing e Giustizia

a cura di Lisa Biasci

In assenza di un quadro normativo del legislatore, il mobbing trova sempre più risposte davanti ai giudici: le ultime dalla Corte di Cassazione e dall’Europa

Il mobbing passa sotto la lente dei giudici di Cassazione e ottiene nuovo spazio rispetto all’impostazione iniziale.
La prima novità, clamorosa, consiste in uno slittamento del mobbing da “sindrome depressiva” a mera “lesione dei diritti del lavoratore”. Ciò significa che prima occorreva una diagnosi medica che appurava la sindrome del lavoratore e la responsabilità del datore di lavoro. Ora pare possibile avviare una causa per mobbing allegando –anche da sola- la violazione dei propri diritti senza più considerare l’accertamento medico come unica prova. Ciò potrà rendere esplosivo il fenomeno del mobbing e un contenzioso potenziale in crescita tra lavoratori e datori di lavoro.

Sempre meno sindrome depressiva e più violazione dei diritti, dunque: è un cambio di prospettiva importante, che supera l’inquadramento tradizionale e che sgancia il mobbing dalla sindrome osservabile medicalmente. Ma occorre però domandarsi e fino a che punto, la prova di una lesione della salute sia necessaria per valutare più complessivamente la sindrome da mobbing. Ancora qui, su questo punto, la Cassazione potrebbe pronunciarsi e colmare il vuoto legislativo che esiste.

Perché sia chiaro, le ultime dalla Cassazione, si pronunciano laddove il legislatore non prevede e non legifera in materia. Almeno in Italia. Ma vediamole nel dettaglio, raggruppandole per la comprensione, per argomenti sommari.

I tempi (Cassazione, sentenza 22858/08): la Suprema Corte stabilisce che il mobbing si configura anche quando i comportamenti vessatori e discriminatori siano reiterati a danno del dipendente anche solo per qualche mese, essendo sufficienti anche meno di sei mesi di “angherie”. Inoltre rientrano tra le vessazioni configurabili sotto tale atteggiamento anche frasi deprecabili rivolte al lavoratore. Infatti, è obbligo del datore di lavoro, vigilare sull’ambiente e intervenire di fronte a vessazioni tra capo e sottoposto o tra colleghi. Occorre per le aziende, insomma, vigilare sull’integrità fisica e psicologica dei lavoratori.
Trasferimenti e mansioni (Cassazione, sentenza 24293/08). La Cassazione ha stabilito che l’impiegato di un’impresa di telefonia trasferito dopo anni di lavoro al call center subisce una dequalificazione che lede la sua immagine e la sua professionalità. Le mansioni di destinazione devono consentire al dipendente l’utilizzazione o il perfezionamento e accrescimento di esperienze professionalizzanti.
Il pubblico impiego (Cassazione, sentenza 24625/07): in tema di lavoro pubblico, qualora la domanda del dipendente (nella specie sanitario di primo livello) miri alla tutela del suo rapporto di lavoro violato da atti illegittimi, vessatori e discriminatori la giurisdizione appartiene al giudice ordinario, cui spetta anche la domanda di risarcimento del danno da mobbing.
L’azienda e il trasferimento del dipendente (Cassazione, sentenza 18580/07): il datore di lavoro non risponde per mobbing se sposta il dipendente in un nuovo reparto, assegnandoli altre funzioni, per ovviare alle tensioni create nel vecchio posto di lavoro. Sarà quindi il dipendente a dover dimostrare che lo spostamento è frutto di persecuzione o ritorsione dell’imprenditore.

L’azienda e il risarcimento del danno (Cassazione, sentenza 16148/07): il datore di lavoro risponde di mobbing orizzontale e deve tutelare l’ambiente di lavoro. L’azione di risarcimento può essere richiesta dal dipendente entro dieci anni che decorrono da quando si è manifestato il danno e non da quando sono iniziate le vessazioni.
Molestie e abusi sessuali (Cassazione penale, sentenza 27469/08): la condanna per il datore di lavoro, in questo caso specifico, sarà duplice. Sul fronte civile per ottenere il risarcimento e in sede penale dove si può configurare anche il delitto di maltrattamenti.
Implicazioni penali (Cassazione penale, sentenza 33624/07): la Suprema Corte penale ha stabilito che il mobbing non è un reato. L’unico strumento a disposizione del dipendente per contrastare le vessazioni nel luogo di lavoro è dunque la causa civile per ottenere il risarcimento del danno. La via secondaria del processo penale può essere intrapresa solo attraverso una denuncia per maltrattamenti.
Sistematicità e durata del mobbing (Cassazione, sentenza sezione lavoro 4774/07): l’illecito del datore di lavoro deve consistere in una condotta protratta nel tempo, con le caratteristiche della persecuzione, finalizzate ad emarginare il dipendente. La violazione, pertanto, deve essere sistematica nella durata e vanno valutate le caratteristiche degli episodi lesivi e delle loro caratteristiche discriminanti.

Analizzando le ultime sentenze della Cassazione, il giudizio degli esperti, è in allarme. Le nuove tendenze si assommano alle altre per fare del mobbing una figura potenzialmente esplosiva e in qualche modo “eversiva” dell’organizzazione del lavoro.

In primis, per lo slittamento del mobbing da sindrome depressiva a lesione dei diritti. Quindi l’aumento dei contenziosi sarà in crescita, perché anche senza una diagnosi medica si può avviare una causa.

Il secondo punto riguarda la necessità che il lavoratore provi una persecuzione, e quindi un dolo diretto nei suoi confronti.

La terza tendenza è quella per cui si passa dalla responsabilità del mobber a quella del datore di lavoro che deve comunque salvaguardare l’integrità psicofisica del lavoratore. Perciò se qualcuno mobbizza qualcun altro è il datore di lavoro a esserne responsabile.

Infine la Cassazione riduce il “tempo” necessario perché si abbia il mobbing: all’inizio si ragionava su persecuzioni radicali per almeno sei mesi ora basta un periodo anche minore.

Per concludere, in Italia, il mobbing trova risposte ancora frammentate sia a livello giudiziario che legislativo. Ma in Europa? Il problema è in crescita ma le risposte tardano ad arrivare anche a livello comunitario. L’Europa, almeno per il momento è rimasta al palo con la risoluzione del 15 gennaio 2008 con la quale è stata adottata la nuova strategia comunitaria per la salute e la sicurezza di lavoro, ma il mobbing non ha un’apposita disciplina. Il legislatore comunitario si è arenato preferendo inquadrare il mobbing nelle molestie psichiche in generale, includendole nella direttiva 89/391.
Un passo in avanti è stato fatto nella direttiva 2000/78 che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (recepita in Italia con il Dlgs 216/03) nella quale è stato introdotto il concetto di molestia considerata come un comportamento discriminatorio con lo scopo di violare la dignità della persona o di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.

La questione è quindi passata agli stati membri, con un inevitabile effetto negativo sui tentativi di armonizzare la definizione di mobbing, tra i ventisette paesi. Gli Stati procedono in ordine sperso e solo la Svezia, tra tutti, sin dal 1993 ha approvato una normativa ad hoc sul mobbing considerato come molestia psicologica e introducendo tra l’altro, un obbligo per il datore di lavoro di indagine per prevenire e combattere tale fenomeno in azienda. Segue la Francia, che dal 2002 punisce le molestie psichiche nei luoghi di lavoro sia sul piano civile che penale e stabilisce fino ad un anno di carcere per il datore che provoca il deterioramento delle condizioni di vita del lavoratore.

Solo il Belgio, il Lussemburgo e per ultima l’Irlanda – a seguire- hanno adottato norme specifiche in materia. In ordine sparso, dunque, l’Europa lascia ai paesi singoli il compito di legiferare. Noi italiani,Ahimè,siamo sempre la solita eccezione. Di fronte al vuoto normativo,rispondono i giudici della Cassazione e la strada per norme specifiche ad hoc è ancora tanta da fare.

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