Verità o ascolti: il dubbio amletico del buon giornalista.

foto-servizio-pubblico[1]Il covo di Montagna dei Cavalli l’avevamo individuato già nel 2001, ma ci impedirono di metterlo sotto controllo“.
Questa è la testimonianza resa da un anonimo carabiniere a Servizio Pubblico giovedì 23/05/2013 che stride un po’ con i dati sulla latitanza di Provenzano. Non quelli dei carabinieri, s’intende, e neppure della polizia ma degli stessi mafiosi intercettati. Dati alla luce dei quali non si può fare a meno di rispondere a questo anonimo: “E per fortuna, perchè non avreste trovato nessuno”.

Veniamo ai fatti, quelli documentati. Gennaio 2001. Viene arrestato Benedetto Spera, il Primario Vincenzo di Noto (giunto a Mezzojuso per visitare il Boss) e Nicola la Barbera, proprietario del casolare dove avviene l’arresto. Pochi giorni dopo la cattura, Spera a colloquio in carcere con la moglie dirà “Pensa tu, Iddu a duecento metri stava…” Iddu è Provenzano. La zona era sorvegliata dal ROS e dalla Polizia, squadra catturandi. Era troppo pericoloso muoversi e quindi il Boss rimane lì. Lo sappiamo dall’intercettazione ambientale di Angelo Tolentino, uno dei curatori della latitanza del Boss a Mezzojuso. Intercettato in una conversazione con Giuseppe Ciglia, nel 2002 disse “L’altro ieri, per tanto, non ho “attumuliato”, tanto che io ho detto: questa volta è finita!…il ragioniere.” L’episodio si riferisce a una pattuglia che ha seguito la sua macchina mentre a bordo aveva “il ragioniere”, Bernardo Provenzano. Poteva permettersi un buon curatore di far rischiare l’arresto al suo Padrino spostandolo per lunghi viaggi?

Maggio 2004: la prova dello spostamento di Provenzano: in un pizzino a Pasquale Badami il Boss avvisa che per un po’ scriverà a penna, segno evidente che nella fretta di spostarsi non ha portato con sè le sue macchine da scrivere. Nel Settembre 2004 sappiamo, grazie ad una intercettazione all’aperto a Ciccio Pastoia che si sarebbe dovuto incontrare con Provenzano a Misilmeri “Ci vediamo domenica, con Iddu“. Sapendo che Provenzano era braccato e che avevano appena arrestato le sue talpe, Ciuro e Riolo (Novembre 2003), possiamo immaginare che gli spostamenti del Boss non potessero essere troppo lunghi, pena il rischio di essere preso. “Sono trent’anni che m’annacco Provenzano” amava dire Pastoia intercettato, quindi mai e poi mai l’avrebbe esposto a rischi come trasferimenti lunghi per incontrarsi, a meno che non si trattasse di cose gravi, come l’intervento a cui venne sottoposto a Marsiglia.

Ancora, Gennaio 2005: Operazione Grande Mandamento. Vengono arrestati tutti i suoi collaboratori sparsi per la Sicilia. “Ma ora sarà costretto a tornare e a rivolgersi agli uomini della sua famiglia di sangue e del suo mandamento. A tornare a Corleone“. Questa fu l’intuizione avuta da Renato Cortese e dagli uomini della Duomo, costituita solo nel marzo 2005 da uomini selezionati dello SCO e della Catturandi. Dopo quasi un anno di intercettazioni, riprese video e pedinamenti al figlio di Provenzano, Angelo, il nipote, Giuseppe lo Bue e suo padre, Calogero lo Bue. Un anno per penetrare nell’intimità di quella famiglia e capire dove andavano quei sacchetti che portavano fuori da casa della moglie di Bernardo Provenzano fino a casa di Calogero lo Bue, sempre all’interno di Corleone.

L’ultimo tassello che portava fuori Corleone viene scoperto solo il 18/03/2006 su una Golf Silver, tale Binnu Riina, amico d’infanzia di Provenzano. E’ seguendo lui che si arriva alla Montagna dei Cavalli. Sappiamo, grazie al documentario “Scacco al Re“, altro Docufiction RAI, che le ricerche alla Montagna dei Cavalli vennero dapprima rivolte verso alcuni immobili di proprietà del fratellastro della moglie di Riina, Nicolò di Puma, senza esito. Sappiamo anche che non si poteva pedinare Bernardo Riina fino a Montagna dei Cavalli e neppure installare telecamere ravvicinate o cimici e che quindi rimasero appostati sul luogo a 2chilometri di distanza per giorni, sorvegliando la zona con l’ausilio di un telescopio. La descrizione di una seconda macchina di Bernardo Riina, un pick up bianco che arriva nel cortile di Giovanni Marino è nota e stranota. Ancora di più la descrizione della piccola costruzione nuova, e per questo incoerente con il resto della casa, dove alloggiava Provenzano.

Ora, sono stati scritti fiumi di carta sul tema della latitanza di Provenzano, così come video, alcune intercettazioni rese pubbliche e alcuni pizzini. Non è difficile ricostruire la realtà dei fatti. C’erano squadre impegnate giorno e notte, impegnati nella caccia all’uomo. Negli ultimi giorni prima della cattura di Provenzano gli uomini di Cortese stavano sdraiati a terra con un telescopio ed altri nascosti in un casolare attaccati ad un monitor, facendo a turno per dormire e facendo pipì nelle bottiglie per non insospettire gli abitanti del luogo. Si sono spaccati lo stomaco a pizza  e pollo per anni, per non muoversi dalla sala ascolti. Hanno fatto la stessa vita questi nuovi accusatori?

Come mai ogni tanto salta fuori qualcuno con una verità diversa non da quella ufficiale ma persino da quella raccontata dai mafiosi (che è lo specchio di quella ufficiale)? Che fa scalpore, certo. Fa bello dire: “Ci hanno impedito di catturare Provenzano” in un’era di complottismi, di Servizi Segreti deviati ed ufficiali compiacenti. Fa parlare e fa parlare ancora di più della trasmissione che ha ospitato queste dichiarazioni choc, con grandi titoloni sensazionali.  Sta però al giornalista serio selezionare le testimonianze in base alle prove documentarie e alla veridicità della stessa e non alla quota di ascolti che questa testimonianza porta. Cosa che non mi sembra sia stata fatta questa volta.

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